”Spesso senza accorgercene le nostre comunità dicono principalmente attività ricreative, feste, liturgie, interventi sociali, tutte cose buone senz’altro, capaci di raccogliere presenze e consensi; ma non dicono innanzitutto, in ogni attività, in ogni incontro, che Gesù Cristo è morto e risorto, che è vivo e presente, che è salvatore degli uomini e datore di Spirito, fondatore di comunione e di pace nei cuori. In altre parole: impegnano molte energie ma non riescono facilmente a coinvolgere nella relazione con il Signore. L’esperienza dei discepoli che hanno incontrato il Risorto, invece, così come ce la presentano i Vangeli, deve diventare vera oggi più che mai !”
(Da “Vita pastorale, le sfide per una nuova evangelizzazione”, di Pino Macchioni)
Aiutiamoci in fraternità
La testimonianza comunitaria della carità è uno dei mezzi per costruire la comunione ed un esercizio da praticare costantemente.
Nella comunità di San Policarpo vi sono diverse realtà impegnate nell’aiuto fraterno:
Inoltre, viene fornito sostegno ad altre realtà vicine, come l’attività di suor Ancilla per i carcerati, la casa famiglia di via delle Nespole o il “Progetto buon samaritano” a favore dei migranti che sono ospitati vicino Anagnina.
Ogni anno, in tutto il quartiere e grazie al contributo di diversi volontari, si svolge la Giornata della carità, una raccolta di beni di prima necessità per i fratelli più bisognosi del territorio; si tratta, ormai, di un appuntamento tradizionale, come testimonia il seguente verbale del 21 dicembre 1964:
“Da domani 22 corrente inizierà la distribuzione di pacchi natalizi ai poveri della parrocchia. Pacchi che sono stati possibili grazie alle offerte e partecipazione dei parrocchiani nella “Giornata della carità” tenutasi domenica 20 corrente”
Di seguito il brano “Vivere oggi la carità” di Gianfranco Venturi:
La carità è combattere le ingiustizie e le disonestà,
è svolgere con costanza, preparazione e puntualità i miei impegni,
nella scuola e nel gruppo degli amici,
è essere leali nei rapporti in famiglia, senza imbrogli e raggiri…
La carità è imparare a chiedere scusa e a perdonare,
è scoprire le virtù negli altri e riconoscere i miei difetti,
è saper fare un sorriso di fronte a piccoli malintesi e imprevisti…
La carità è evitare ciò che può offendere la mia e l’altrui sensibilità,
è essere coerente nei pensieri e nelle azioni,
è assumere fino in fondo la responsabilità a scuola, nel gioco…
La carità è “vedere” chi ha bisogno di aiuto,
è non solo “dar dei soldi”,
ma impegnarmi perché tutti possano star bene,
è donare con amore anche il mio tempo e la mia fatica…
La carità è “rischiare” per gli altri,
dimenticando gli egoismi e le paure,
è aiutare i miei compagni in difficoltà,
dedicare del tempo ad ascoltarli,
è astenermi da pettegolezzi e da giudizi infondati…
La carità è amare la natura,
è rispettare le cose a scuola, in casa,
in tutti gli ambienti pubblici,
è dare il mio contributo per risanare
e tenere pulito l’ambiente…
La carità è provare gioia del successo degli altri,
non avere invidia,
è partecipare alla sofferenza degli altri,
è accettare la “diversità” degli altri,
per crescere assieme…
La carità è Dio Amore
che si è fatto dono gratuito per tutti noi:
impariamo a scoprirlo e a viverlo
con gioia nei nostri piccoli gesti quotidiani.
I Baraccati
Una particolare storia di cui mantenere il ricordo è quella delle 650 famiglie che, tra il 1936 e il 1973, costruirono altrettante baracche sotto gli archi dell’acquedotto Felice (l’antico acquedotto di Alessandro Severo restaurato da Sisto V). E’ inutile dire il grande disagio in cui quelle persone vivevano, prive di ogni più elementare servizio, in una situazione di enorme disagio; erano chiamati da tutti “i baraccati”.
La parrocchia dovette affrontare fin dall’inizio (1960) quel grande problema, limitandosi inizialmente alla classica assistenza caritativa, ovvero il sostegno economico nella forma del solito ‘pacco’ e l’assistenza scolastica ai bambini attraverso il volontariato di alcuni giovani.
Una svolta nel rapporto della parrocchia con i Baraccati avvenne nel 1968 con l’arrivo del giovane viceparroco don Roberto Sardelli, che, rispondendo alla sua “vocazione” e alle sue aspirazioni e seguendo l’esperienza di don Lorenzo Milani (che allora “faceva scuola” specialmente tra le persone inquiete e insoddisfatte di una vita cristiana borghese), cominciò ad insegnare tra le baracche ai bambini.
Un altro sacerdote, don Sergio Angelini, condivise con don Roberto quest’attività intensa e coraggiosa, che determinò scandalo in tante persone, completamente chiuse in un cristianesimo spiritualista e devozionale: infatti, man mano che la scuola prendeva piede e acquistava credibilità tra i baraccati, aumentava l’ostilità da parte di tutti quei parrocchiani che si sentivano spiazzati nell’attività di beneficenza dal rifiuto del loro stile, che continuava a lasciare le persone nello stato di dipendenza psicologica dai cosiddetti “benefattori”. Le prime vittime del rifiuto, da parte dei baraccati, del vecchio stile assistenziale furono i giovani stessi della parrocchia:
“Man mano che la scuola si legava al borghetto, i giovani che non vedevano di buon occhio tale processo di identificazione e che vedevano male la mia fermezza, ci lasciavano.” (Roberto Sardelli, “In Borgata”, Nuova Guaraldi, pag. 8)
Diceva don Roberto:
“L’assistenza è un offesa e non incide positivamente sul piano dei cambiamenti sociali, anzi, spesso svia il comportamento delle persone facendone degli assistiti e impedendone la presa di coscienza …..
…tra i baraccati, specialmente tra le donne, serpeggia una certa psicologia assistenziale. I baraccati, molti, credono di poter vivere di elemosina. Ce ne sono alcuni che posseggono un elenco di sette o otto enti assistenziali e ogni mattina ne vanno a visitare uno. Alla fine del giro ricominciano daccapo. Ora tutte queste persone bisogna recuperarle ad una vita dignitosa. Noi dobbiamo lottare contro questa maledetta psicologia assistenziale che addormenta la gente. La gente così addormentata è funzionale a quegli enti che rifiutano, non a caso di porsi il problema alla radice e mensilmente danno delle pennellate sulle situazioni di bisogno” (Roberto Sardelli, “In Borgata”, Nuova Guaraldi, pag. 23)
Lo stile di don Roberto lentamente lo mise in urto, oltre che con la propria parrocchia (dopo la predica nella Messa del giorno di Pentecoste del 1969 fu duramente contestato e ci fu una rissa tra due schieramenti contrapposti di giovani), anche con la parrocchia vicina dei salesiani, le suore dell’Assunzione, le autorità pubbliche (fu famosa una lettera di contestazione che i ragazzi della scuola avevano faticosamente stilato insieme a don Roberto, con il proposito di inviarla al sindaco di Roma dott. Santini) e, persino, con i superiori ecclesiastici e la Croce Rossa:
“In pieno inverno del 1969 venne a trovarmi una signora della Croce rossa. Ella mi proponeva una scuola più ampia, impiantando un fabbricato. La tentazione fu forte, ma ebbi il coraggio di rifiutare. Le risposi: Non devo creare nello squallore delle baracche un angolino di Svezia. Siamo baraccati e tali dobbiamo rimanere. La scuola non deve essere diversa dalle abitazioni. Che senso ha un paradiso didattico in un inferno?” (Roberto Sardelli, “In Borgata”, Nuova Guaraldi, pag. 19 )
Sicuramente l’attività e le scelte di don Roberto furono “segno di contraddizione”, non solo nel contesto parrocchiale in cui operava, ma in tutta la diocesi ed oltre; ma, lo stesso Monsignor Canestri, Vescovo Ausiliare, disse in seguito che, se a Roma il problema delle baracche fu risolto, fu sicuramente per merito di don Roberto Sardelli e del suo modo di scardinare alcune vecchie convenzioni:
“Di lì a pochi mesi, nell’ottobre del 1969, ci fu la visita pastorale in parrocchia. Il Vescovo monsignor Canestri mi preannunciò che nel corso della “visita” sarebbe venuto anche alle baracche. Risposi che ne sarei stato lieto e lo invitai a celebrare la messa nella baracca. Arrivò giovedì. Verso il tardo pomeriggio mi si presentò il Vescovo accompagnato dal parroco. Stemmo un istante nella scuola e poi uscimmo. Li condussi lungo il “treno” di baracche. Se incontravo qualche persona o qualche famiglia, mi salutavano. Io mi fermavo e presentavo il Vescovo. Ci si scambiava qualche parola e quasi tutti, spontaneamente, manifestavano al Vescovo la loro contentezza per avermi tra loro come uno di loro.” (Roberto Sardelli, “In Borgata”, Nuova Guaraldi, pag. 59 – 65 )